Pubblicato in The Post Internazionale
INDEPENDÈNCIA. Non lasciava dubbi l’enorme striscione dietro il quale l’11 settembre scorso un milione e mezzo di catalani ha invaso con le sue bandiere gialle, rosse e blu le strade di Barcellona. Nel giorno della Diada, la festa nazionale della Catalogna in cui si commemora la caduta di Barcellona, nel 1714, nelle mani delle truppe borboniche di Filippo V di Spagna, famiglie intere, giovani e anziani sono arrivati dalle 4 provincie della regione con un obiettivo chiaro: dichiarare la Catalogna “nuovo Stato d’Europa”.
Per capire le ragioni per cui, secondo un recente sondaggio ufficiale, il 51,1% dei catalani voterebbe a favore dell’indipendenza dalla Spagna bisogna sondare nel seny e la rauxa, quel misto di interesse e passionalità che costituisce le fondamenta indissolubili della cultura popolare catalana.
LA LOCOMOTIVA E LA ZAVORRA
La Catalogna, con i suoi sette milioni e mezzi di abitanti, costituisce una delle regioni più ricche e industrializzate della Spagna. La sua economia costituisce quasi un quinto del PIL dello stato e le imprese catalane producono il 25% delle sue esportazioni. La Catalogna, dunque, è il secondo contribuente fiscale del paese iberico. Ma – e qui nascono i dissidi – solo l’ottava comunità autonoma per finanziamenti ricevuti da Madrid. Secondo gran parte della società catalana e dei partiti che la rappresentano, i 16.500 milioni di euro di differenza nella bilancia fiscale costituiscono un “saccheggio”. “Senza questo deficit, la crisi qui neanche si noterebbe”, lasciano intendere ripetutamente i vari esponenti dell’amministrazione regionale, guidata da Artur Mas, del partito nazionalista di destra CiU. Questo ammanco giustificherebbe anche i drastici tagli in educazione e sanità – le due competenze autonomiche più importanti – che negli ultimi mesi lo stesso CiU ha imposto nel bilancio. A livello politico, poi, le divergenze tra Madrid e Barcellona si sono acuite quando, due anni fa, una sentenza della Corte Costituzionale ha affossato lo Statuto catalano, una sorta di costituzione votata dal parlamento regionale e poi ratificata con un referendum popolare. La decisione dell’alta corte è stata sentita come uno smacco nei confronti delle richieste di maggiore autonomia politica e una pietra tombale su un eventuale riforma federale dello stato.
CATALONIA IS NOT SPAIN
L’altro asse attorno a cui ruotano le rivendicazioni separatiste è la forte identità culturale e linguistica che contraddistingue la regione. Il catalano è una lingua di tradizione secolare, tanto in ambito amministrivo che letterario, che ha resistito alla sua proibizione durante il regime franchista. Dal raggiungimento della democrazia in poi, le politiche scolastiche e la maggiore diffusione nei mezzi di comunicazione l’hanno reso sempre più vivo. Attualmente 10 milioni di persone utilizzano il catalano, una cifra che lo colloca al nono posto in Europa per diffusione, al pari del greco e il portoghese. Tuttavia, solo il 36% degli abitanti la considera la sua lingua abituale e questo diffonde un sentimento di frustrazione nella società catalana, che vede nello spagnolo – lingua coofficiale – una minaccia costante. A livello culturale, poi, è evidente l’interesse a smarcarsi dai simboli considerati spagnoli. Quando, due anni fa, la Generalitat ha approvato la proibizione delle corride in Catalogna, c’era il sospetto più che fondato che la preoccupazione animalista fosse solo secondaria. Allo stesso modo, le competizioni sportive sono diventate il catalizzatore degli umori indipendentisti. Ben lungi dal celebrare le recenti vittorie calcistiche della Spagna, gran parte dei catalani riversa la propria passione nelle imprese della squadra di calcio del Barcellona, sentita come la propria nazionale. Non è un caso che anche Pep Guardiola, catalano e fino a pochi mesi fa allenatore del Barça, abbia mandato durante la manifestazione dell’11 settembre un video in cui appoggiava la causa indipendentista.
DALL’ALTRA PARTE DELL’EBRO
Nel resto della Spagna, le reazioni alle richieste indipendentiste sono opposte. Secondo un recente sondaggio, quasi otto spagnoli su dieci considera che le rivendicazioni catalane sono infondate. Tuttavia, una gran maggioranza ritiene che se un numero consistente di catalani decidesse in un referendum di diventare indipendente, ne rispetterebbe la volontà, sempre a patto che la separazione avvenga in maniera concordata. Non la pensa così il Partito Popolare al governo, che ha sempre mostrato l’intenzione di centralizzare maggiormente lo stato. Così come non l’approvano la maggior parte dei mezzi di comunicazione conservatori, che portano avanti da anni una campagna di demistificazione verso tutto ciò che viene dalla Catalogna. In generale, la società spagnola, gravata ormai da 5 anni di crisi economica, assiste tra incomprensione, fastidio e senso di stupore alla volontà secessionista catalana.
CHIMERE E CONTRADDIZIONI
Chi ha reazionato in maniera decisa e inaspettata è stato il re Juan Carlos. Il capo di Stato, che ha sempre mantenuto un profilo politico molto basso, è intervenuto con una lettera in cui professa il bisogno di unione contro la tentazione di “inseguire chimere”, con evidente riferimento alla manifestazione di Barcellona. Anche i dirigenti delle grandi multinazionali con sede in Catalogna si sono mostrati tiepidi, se non apertamente contrari all’indipendenza. D’altra parte, il mercato spagnolo costituisce ancora il 40% del fatturato delle loro imprese. Molti commentaristi politici sottolineano inoltre come una parte del nazionalismo catalano sia riuscito a dirigere le colpe verso il governo centrale, sviando l’attenzione dalle conseguenze di un programma politico di tipo neoliberale che sta attaccando duramente il tessuto sociale. Il grido di Madrid nos roba (Madrid ladrona), affermano, è un mantra demagogico che non risolve i problemi e la maggiore contribuzione fiscale catalana risponde al principio di solidarietà. Il governo catalano di Mas, poi, è sempre sembrato più concorde a cavalcare il malcontento nazionalista e rentabilizzarlo politicamente, piuttosto che pronto a preparare un’eventuale road map verso la secessione. Senza contare che la scelta dell’indipendenza si scontrerebbe con la politica dell’Unione Europea. Il portavoce della Commissione Europea, Olivier Bailly, ha affermato che un nuovo paese che sorgesse all’interno di uno degli attuali stati membri, sarebbe “fuori dalla UE” e dovrebbe negoziare il suo ingresso. L’altra incognita riguarda il peso politico del nuovo stato all’interno dell’Unione: se la Catalogna non riesce a far sentire il proprio peso a Madrid – come affermano i nazionalisti -, che speranze avrebbe di farlo in Europa?
NUOVI SCENARI
Dopo il “no” di pochi giorni fa del presidente del governo spagnolo alla proposta di un nuovo patto fiscale per la Catalogna, si aprono nuovi scenari nella penisola iberica. Questa settimana Mas presenterà e fara votare dal Parlamento catalano una risoluzione in cui chiede che i catalani si esprimano sulla questione. Non si sa ancora se attraverso elezioni anticipate – a solo due anni dalle precedenti – o di un referendum. Quel che è certo è che la Catalogna si prepara ad un autunno arroventato.