Pubblicato su La Repubblica – Le inchieste
Un colpo. Poi un altro. Un’altro ancora. Infine, un’enorme nube di acqua che si staglia nell’azzurro del mattino del 9 novembre del 1993. Subito dopo, dalla collina Hum, che domina la città di Mostar, cadeva il silenzio. Esattamente dallo stesso punto in cui ora si alza una croce di 33 metri, l’artiglieria delle forze armate croate (HVO), guidate dal generale Slobodan Praljak, compiva la sua missione: distruggere lo Stari Most, il ponte vecchio, simbolo della città dal 1566. Quel mattino, insieme alle pietre intagliate dagli artigiani ottomani, finivano nelle acque del fiume Neretva secoli di komšiluk. Il cordiale rapporto di vicinanza tra persone di diversa tradizione e religione, che aveva caratterizzato Mostar più di altre città jugoslave, era portato via dalla corrente, verso un futuro di violenza e incomprensione mutua. Quella stessa mattina, Orhan Maslo si trovava a poche centinaia di metri da lì, nella base delle forze speciali dell’esercito bosniaco-musulmano (ARBiH). Nella sua unità tutti lo chiamavano ‘Oha’ – ontano, il resistente albero dei boschi dell’Erzegovina –, il soprannome che suo nonno gli aveva dato fin da piccolo per la sua incredibile altezza. Oha si occupava di distruggere con un bazooka gli obiettivi militari croati al di là del boulevard che separava la East bank musulmana dalla West bank croata. Lui si divertiva come se si trattasse di un gioco e i suoi superiori lodavano la sua mira e efficacia. Per questo, a nessuno importava che avesse quindici anni e che da un anno e mezzo combattesse sulla prima linea della guerra europea più cruenta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
“Non piansi per il ponte. Le lacrime, semplicemente, non servivano”, mi spiega Oha davanti ad una birra Sarajevska. Mi ha dato appuntamento al centro culturale “Abrašević” e ora è seduto qui, su un cassone, a due passi dal viale Šantića, lo stesso da dove i cecchini croati lo prendevano di mira e che oggi continua a rappresentare lo spartiacque tra le due comunità. “Un paio di mesi prima, un mio amico aveva perso suo fratello di undici anni. Una granata gli aveva amputato una gamba. Lo portarono all’ospedale, ma fu inutile. Il dottore gli consegnò la gamba e lui non pianse. Ma quando distrussero il ponte, sì che pianse”.
Gli accordi di Dayton, firmati nel novembre del 1995, hanno creato una situazione di stallo istituzionale e politico che che complica la possibilità di ricostruire i legami rotti. L’accordo prevedeva la creazione di due entità: la Federazione di Bosnia-Herzegovina, composta maggioritariamente da bosgnacchi e croati e che occupa il 51% del territorio nazionale, e la Repubblica Srpska, a maggioranza serba. Le due entità hanno grandi autonomie amministrative, ma all’interno della cornice statale della Bosnia-Herzegovina. La presidenza è collegiale e la compongono un serbo, un croato e un bosgnacco, che a turno, ogni otto mesi, si alternano nella carica di presidente. Inoltre, le due entità hanno un proprio parlamento e tutto il territorio, grande due volte la Sicilia, è diviso in cantoni, che hanno una legislazione specifica per ogni gruppo etnico che lo integra. Questa complessa divisione amministrativa, frutto dei negoziati che permisero di firmare la pace, rende difficile ogni possibilità di intesa, a causa dei veti incrociati dei rappresentanti politici di ogni comunità. “Nella memoria dei cittadini è ancora fresco il ricordo della guerra, perciò le comunità votano per chi dice di salvaguardare ‘la propria casa’”, afferma Vernes Voloder, coordinatore del centro internazionale di studi per il dialogo NDC Mostar. “I tre partiti nazionalisti infondono timori e manipolano i cittadini bosniaci con la strategia del balance of fear”.
L’analisi di Voloder è condivisa anche da chi teme che il censimento della popolazione bosniaca conclusosi poche settimane fa possa servire come grimaldello per le aspirazioni istituzionali di una comunità sulle altre. Tre dei circa 50 quesiti, infatti, chiedevano esplicitamente di indicare identità nazionale, lingua e religione, con il rischio che i risultati vengano pesati secondo le convenienze politiche. Tuttavia, il capo della missione europea in Bosnia Erzegovina, Peter Sørensen, ha dichiarato che «il censimento è una vera e propria pietra miliare nella storia del paese», dal momento che l’ultima volta che si erano contati gli abitanti della Bosnia-Erzegovina era il 1991. “È sacrosanto che un paese sappia quanti sono i suoi abitanti e quali siano le loro attività, in modo da poter pianificare le politiche economiche e sociali”, afferma Alfredo Sasso, redattore di EAST Journal e analista dei Balcani, che considera come sarebbe stato più vantaggioso evitare di porre quei tre quesiti, così come chiesto da molte organizzazioni locali, e riconoscere a tutti un’entità bosniaca-erzegovese. “Ma i partiti nazionalisti e in particolare quello musulmano non volevano perdere l’occasione di far apprezzare agli altri il peso demografico della loro comunità” e sancire la divisione di fatto su base etnica.
Una divisione che a Mostar, a maggioranza croata, è una realtà: tutti i servizi comunali, dalle poste all’educazione, dall’erogazione d’acqua al servizio di nettezza urbana, sono doppi. Alcuni leader politici avrebbero pertanto ipotizzato di creare due municipalità – Mostar Est e Mostar Ovest, separate dal viale Šantića, la vecchia linea di fuoco, dove ora Oha sta rollando l’ennesima sigaretta della notte. “I politici ci hanno messo un tarlo in testa, in maniera che ognuno di noi sa a che gruppo deve appartenere e quali sono le differenze con l’altro. Alla fine di ogni giornata, ognuno torna nella zona della città di propria appartenenza, secondo il criterio della divisione etnica”. Di fatto, nella parte Est della città risiede la maggior parte della popolazione musulmana, mentre in quella Ovest vive quella croata, da cui, secondo un recente studio, quasi l’80% dei giovani non si sono mai mossi per andare dall’altra parte. Nel mezzo, sotto la mezzaluna di pietra dello Stari Most – ricostruito e riaperto nel luglio del 2004 e dichiarato Patromio dell’Umanità Unesco un anno dopo–, scorrono veloci le acque verdi del Neretva. Tra le sue correnti si scompongono le linee verticali dei minareti, guardiani bianchi della città vecchia ricostruta. Lì, nel bazaar Kijundžiluk, torme di turisti si accalcano nei negozi di souvenir per portarsi via a prezzi di saldo un pezzo di guerra: tre euro per una penna fatta con i bossoli, fino a dodici per un piccolo aereo fermacarte. Tuttavia, pochi isolati più in là, i fori dei proiettili solcano ancora le pareti degli edifici; alcuni, come quello della banca Privedna, troneggiano ancora con le stimmate di guerra, vittima e allo stesso tempo ricattatore delle diverse anime della città.
Dallo scenario montato in una sala del centro culturale arrivano gli accordi del soundcheck di un concerto rock. Oha intanto ricorda como la decisione più giusta che abbia preso durante la guerra sia stata quella di lasciare l’esercito, un mese dopo la distruzione del ponte. “Come soldato non mi proteggevo. Mi facevo di tutto. Arrivati a un certo punto, non m’importava più contro chi lottavamo o chi uccidevamo. Sono sicuro che se avessi continuato a combattere, non avrei visto la fine del 1994.” Oha si rifugiò nello scantinato di un edificio, che divise con una ventina di adolescenti fino alla fine della guerra. Lì sotto, con alcuni bidoni di vernice e altre cianfrusaglie, imparò a suonare le percussioni. Il percussionista sudafricano Eugene Skeef lo sentì esibirsi nell’orfanotrofio dove era stato trasferito alla fine della guerra e scommise sul suo talento. Durante gli anni successivi, Oha iniziò a partecipare a tour internazionali con vari artisti e ed entrò a far parte della band Dubioza Kolektive, destinata a convertirsi in un punto di riferimento della musica alternativa balcanica. Nel 2003, con un amico, fondò il Mostar Blues Festival, il primo evento che riuniva le due parti della città, e l’anno scorso iniziò a dirigere la Mostar Rock School, una scuola di musica in cui adolescenti delle diverse comunità di Mostar suonano insieme, sotto la supervisione di musicisti professionisti. “La música è la miglior maniera per avvicinare le persone. Una volta catturato, non ti importa più se la persona con cui suoni viene da Est o da Ovest”, mi dice, orgoglioso. In solo due anni di attività, nella scuola, alloggiata nelle sale del Pavarotti Musik Center, si sono create una ventina di band, che si esibiscono in tutti i Balcani.
Jimi Hendrix fuma da un poster vicino alla finestra. Dalla strada, una tiepida luce illumina un posacenere già pieno di cicche e accende le pareti gialle e arancioni del Pavarotti Musik Center. Al bancone della caffetteria, un rocker sulla quarantina aspira una boccata da una sigaretta, guardato a vista da Mick Jagger , Kurt Cobain e Bob Marley. Appese più in là ci sono, in bianco e nero, anche le foto di Maria Callas e Luciano Pavarotti. Il tenore modenese è venuto una sola volta qui, nel 1997. Dovettero cambiare l’elicottero che lo avrebbe portato a Mostar da Split, perché quello previsto era troppo piccolo. Ci rimase un solo giorno, ma molti ricordano con affetto il suo sguardo pieno d’energia. Una bambina gira intorno con i pattini, mentre alcuni ragazzi entrano con le custodie della chitarra sulle spalle e si dirigno alle sale prove. “Noi non abbiamo cominciato la guerra, quindi vogliamo tornare ad essere uniti come prima”, mi grida nella sala di registrazione Amar Santjc, il diciassettenne chitarrista del gruppo Kuro Sawa. “È una cosa grandiosa checi abbiano mischiati, gente di diverse origini e religioni”, aggiunge Manuela Zulj, la giovane cantante degli Zurks. Un po’ impacciati, chiedono di poter riprendere le prove e vanno via.
“Credo che la chiave per la riconciliazione siano progetti come questi”, mi ribadisce Oha, mentre la sua compagna lo avvisa che il concerto sta per iniziare. “Bisogna dare alle nuove generazioni la possibilità di avvicinarsi, di conoscersi. Affinchè capiscano che l’unica differenza che li separa è il loro nome”. Per questo, ha chiamato sua figlia Luna. “Ero stanco che tutti i nomi appartenessero a religioni, etnie, nazioni”, mi dice mentre si muove verso lo scenario del concerto. “Così abbiamo scelto un nome che non esiste su questo pianeta”.