Nicosia. L’ultima capitale divisa del mondo

Pubblicato in La Repubblica – Le inchieste

Nicosia, old airport. © M. Ansaloni

“Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Il vescovo, seguito da un diacono e da Padre Diomidis, ha appena varcato la soglia del presbiterio e, con passo solenne, si dirige verso il trono da cui celebrerà la funzione. Un odore pungente di incenso impregna l’aria della piccola chiesa gremita di San Charalambos. Maria Tsiaklis si porta le dita alla fronte, al grembo, poi sulla spalla destra e infine su quella sinistra, come impone la tradizione ortodossa. Una, due, tre volte. È in piedi, in prima fila. Una sottile linea nera incornicia gli occhi velati di tristezza. Un’ombra di fard copre a stento le rughe dei suoi 67 anni. Giacca nera, camiciola nera, gonna e calze nere. Anche le sue scarpe sono nere, di vernice, con l’etichetta bianca ancora attacata alla suola. Alla sua sinistra, Chrystalla, sua sorella più piccola, ripete gli stessi gesti. Alla sua destra, Militsa, sua sorella maggiore, gira nervosamente lo sguardo intorno a sé. Poco più in là, suo fratello George, accompagnato da sua moglie, mormora una preghiera. Di fronte alla famiglia Tsiaklis, adagiate su un tavolino, giacciono due piccole bare. Ognuna è avvolta da due bandiere: si distinguono chiaramente l’azzurro e il bianco di quella greca e il bianco e ocra di quella cipriota. I parenti vi hanno posato una croce di garofani bianchi e una corona di gerbere colorate. Tutt’intorno, le icone dorate dei santi affisse alle pareti risplendono per la luce abaccinante che trabocca dalle finestre, mentre fuori il calore spreme i fiori di zagara, inondando del loro profumo dolciastro le strade di Nicosia, l’ultima capitale divisa del mondo.

Il 30 dicembre del ’63, il generale inglese Peter Young tracciò con una matita verde una linea sulla cartina di Nicosia, da un capo all’altro delle mura veneziane. Il suo obiettivo era porre un freno ai violenti scontri tra le due comunità, che in un mese avevano lasciato sul terreno oltre un centinaio di morti, in gran parte turcociprioti. Quella linea sottile, una temporanea zona cuscinetto larga al massimo una decina di metri, si sarebbe trasformata nel confine che da 48 anni divide la città tra la turcocipriota Lefkoşa, a nord, e la grecocipriota Lefkosia, a sud. In seguito all’invasione turca di Cipro, nell’estate del 1974, la zona cuscinetto venne estesa a tutta l’isola, per una lunghezza di circa 180 kilometri. Una ferita tutt’ora aperta nella carne della sua storia millenaria.

La parte sud della città vecchia è oggi un dedalo di vicoli, negozi di ricami per turisti e giardini di bouganville. Solo gli alti muri avvolti dal filo spinato che interrompono bruscamente le stradine strette ricordano che questi pochi kilometri quadrati sono uno dei confini più militarizzati del mondo. In uno di questi numerosi posti di guardia, un ragazzo sulla ventina siede annoiato davanti ad una garitta, circondata da sacchi di sabbia e bidoni dipinti di bianco e azzurro. Indossa i pantaloni mimetici e una maglietta verde stropicciata. Segue le immagini che trasmette un televisore acceso nella stanza accanto, dove riposano i suoi commilitoni. Di tanto in tanto distoglie lo sguardo per ammonire i curiosi e i turisti che vogliono scattare una foto a questo surrogato di trincea. “È terribilmente noioso stare qui”, mi dice incrociando il mio sguardo, prima di riprendere una posizione più marziale. È un soldato di leva, uno dei 12 mila militari della Guardia Nazionale che controllano la parte grecocipriota del confine. Alle sue spalle, a una ventina di metri di distanza, oltre la croce che sormonta l’asta delle bandiere greca e cipriota, si scorgono delle torrette scure tra le punte rilucenti dei minareti. Su ognuna sventolano la bandiera turca e quella di Cipro Nord, l’autoproclamata repubblica nata nel 1983 e riconosciuta internazionalmente solo dalla Turchia, che amministra la parte settentrionale dell’isola. Dall’alto di quelle torrette i soldati del contingente turco, composto da 40 mila militari, vigilano il confine settentrionale.

Nel mezzo, si srotola una stretta lingua di strade rotte, edifici fatiscenti e persiane arrugginite, sorvegliata gelosamente da entrambi gli eserciti e dai Giovanni Drogo che li comandano. È una terra di nessuno, dove i rami degli alberi bucano le finestre delle case e i gatti inseguono le lucertole tra le crepe dei muri. Le sparute insegne sbiadite testimoniano che questo che era il cuore commerciale della città. Ora è un limbo immobile a quel dicembre del 1963. Solo l’azzurro dei caschi blu interrompe la monotonia dell’ocra delle pareti sbiadite e il rosso della ruggine. L’accesso alla Zona Morta è infatti prerogativa esclusiva delle forze di interposizione dell’ONU. La missione UNFICYP sull’isola fu istituita dalla risoluzione 186 del Consiglio di Sicurezza del 1964, per prevenire il ripetersi degli scontri tra le due comunità. Il mandato è rinnovato ogni sei mesi da 49 anni e attualmente consta di un migliaio di militari di diverse nazioni e un costo annuale di circa 58 milioni di dollari.

Gli scontri tra le due comunità erano iniziati ben prima del segno di penna del generale Young. Tuttavia, si erano intensificati dal novembre del 1963, a seguito della presentazione da parte del presidente, l’arcivescovo Makarios III, dei cosiddetti “13 punti”, ossia un cambio radicale della complicata Costituzione emersa dagli Accordi di Londra e Zurigo del 1959 tra Grecia, Turchia e Gran Bretagna. La Carta riconosceva il diritto alle tre potenze garanti di intervenire militarmente nel caso considerassero la Costituzione in pericolo, allo stesso tempo che riservava agli inglesi il possesso di due basi navali (che occupano tutt’ora il 3% del territorio dell’isola) e agli altri due paesi il diritto ad inviare contingenti militari.

La proposta di riforma di Makarios III venne interpretata dai turcociprioti come una minaccia alla propria comunità. Quello che l’establishment turcocipriota paventava era che dietro al piano “Akritas”, come fu successivamente ribattezzato dopo la pubblicazione di alcuni documenti che ne contenevano le linee guida, ci fosse l’obiettivo di dissolvere la Repubblica e conquistare l’énosis, il sogno irredentista di ricongiungere Cipro alla Grecia, a cui l’élite grecocipriota non aveva mai rinunciato. Ma, soprattutto, che fosse il preludio di un tentativo di “pulizia etnica” ai loro danni.

La violenza si estese all’intera isola e coinvolse polizia regolare, paramilitari di entrambe le comunità e civili. A seguito degli scontri della fine di dicembre del ’63, ricordati dalla comunità turcocipriota come il ‘Natale di sangue’, la classe dirigente turcocipriota giudicò la proposta di Makarios III come un tentativo di colpo di stato, e considerando ormai “nulla e vuota” la costituzione, abbandonò le istituzioni federali. Il timore di attacchi contro i civili indusse quasi metà della minoranza turca a rifugiarsi in enclavi militarizzate. Tutt’oggi, un terzo dei banchi del Parlamento, quelli riservati ai deputati turcociprioti, rimane vuoto.

“Preghiamo per le anime dei nostri morti”. Davanti all’altare, il vescovo intona in greco antico i canti della liturgia dei defunti. Dai banchi della navata il brusio fende l’aria immobile delle chiesa. Le telecamere delle quattro più importanti catene televisive della Repubblica di Cipro stringono sul volto del portavoce del governo, Christos Christofides, e su quelli delle altre personalità politiche presenti. Sei militari in uniforme, in piedi al fondo della sala, mantengono la posizione di riposo. Sono loro che questa mattina hanno portato a braccio le due bare che adesso Maria accarezza con lo sguardo. In quelle urne semplici sono contenuti i resti dei suoi nonni, due dei 1464 aghnoumenoi grecociprioti, gli “individui dal fato incerto”, dispersi durante l’invasione militare turca dell’isola dell’estate del 1974.

L’ultima volta che Maria li aveva salutati aveva 25 anni ed era primavera. Era andata al loro villaggio, Neo Chorio, pochi km a nord di Nicosia, dove tutti conoscevano suo nonno. Nella sua caffetteria del centro, infatti, aveva servito te e latte di mandorle ad intere generazioni del paese, 1600 grecociprioti e turcociprioti che convivevano lì da tempo. Sua nonna era una donna riservata, ma in privato non nascondeva l’orgoglio per quella nipote che aveva appena partorito un’altra bambina. Quando Maria si era sposata, nel maggio del 1970, i suoi nonni e parecchie altre persone di Neo Chorio avevano raggiunto il villaggio di Vatili, il paese di Evangelos, per partecipare alla festa. Alla fine della cerimonia, suo nonno aveva deciso di aspettare l’ultimo bus per far ritorno al suo paese. Voleva godersi la festa fino all’ultimo perché non sapeva, disse, se avrebbe visto un altro matrimonio di un suo nipote. Nessuno sospettava il motivo per cui suo nonno aveva ragione.

Il 15 luglio 1974 la Repubblica di Cipro fu rovesciata da un colpo di stato, organizzato dalla giunta militare al potere in Grecia e compiuto dall’organizzazione terroristica EOKA B, finanziata da Atene. Al potere si insedia Nikos Sampson, un presidente-fantoccio manovrato dai colonnelli greci. Dopo aver sollecitato la Gran Bretagna ad un’azione congiunta, il 19 luglio il primo ministro turco, Bulent Ecevit, afferma “Non ripeteremo l’errore commesso dieci anni fa”. La mattina seguente un corpo di spedizione turco sbarca sulla costa settentrionale di Cipro, distante dalla Turchia meno di un centinaio di kilometri, ed occupa la città di Kyrenia (Kerynia/Girne), a netta maggioranza grecocipriota. Ha inizio quello che i turcociprioti chiamano ancora “Operazione Pace”, che continua, con bombardamenti dell’aviazione e l’uso del napalm, nei quattro giorni seguenti. A quel punto viene dichiarato dall’ONU un primo cessate-il-fuoco e richiamato dall’esilio il primo ministro grecocipriota Karamanlìs. Nelle tre settimane successive, mentre si intrecciano gli sforzi diplomatici per risolvere la crisi, i terroristi dell’EOKA B si dedicano al massacro di decine di abitanti di alcuni villaggi turcociprioti. Contemporaneamente, le truppe turche aumentano il loro contingente fino a portarlo ad oltre 30 mila soldati.

Il mattino del 15 agosto del 1974 i nonni di Maria erano nella loro casa, intenti a preparare il pranzo per la celebrazione della festa ortodossa della Dormizione di Maria. Ad entrambi era giunta l’eco del conflitto che stava scuotendo l’isola, ma avevano deciso di non preoccuparsene più di tanto, sicuri che la violenza non avrebbe lambito la tranquillità di Neo Chorio. Quel mattino l’esercito turco entrò nel villaggio e rastrellò le case. Alla fine delle operazioni, le tenebre avrebbero avvolto il destino dei nonni di Maria e di altri 72 abitanti di Neo Chorio. Le uniche frammentarie informazioni che Maria è riuscita a raccogliere sulla sorte dei suoi nonni provengono dai racconti di un suo zio, rifugiatosi al momento dell’assalto dell’esercito in un pollaio. Il 22 agosto avrebbe visto i cadaveri dei nonni, uno sull’altro, sul pavimento della loro casa. Un’altra vicina avrebbe sentito, quei giorni, uno sparo e la nonna gridare “Panayia mu” [Holly Mary] e poi un altro sparo. Poi più niente.

Tra il 5 ed il 20 agosto le truppe turche portano a termine la seconda parte dell’operazione ed occuparono il territorio settentrionale dell’isola. Da Kyrenia, da Famagosta e dalle altre zone occupate 180 mila persone, un terzo della popolazione greca di Cipro, furono costrette ad abbandonare le loro case e a spostarsi nella parte meridionale. Allo stesso tempo, circa 40 mila turcociprioti passarono dal sud dell’isola rimasto in mano greca al nord occupato. Alla fine di questo doppio esodo, si conteranno oltre 4 mila persone morte negli scontri. Il destino di 494 turcociprioti e di 1464 grecociprioti rimarrà invece sconosciuto per anni. Come quello dei nonni di Maria.

 “Finalmente Dio misericordioso ha dato l’opportunità ai vostri nipoti, 37 anni dopo, di partecipare al vostro funerale”. Maria, in piedi davanti all’altare, legge con voce rotta le poche righe che ha scritto per il funerale. Chiama per nome quelle ossa contenute nelle due bare. Quelle stesse ossa di cui nessuno aveva saputo nulla fino al dicembre del 2011, quando un membro del Committe on Missing Persons in Cyprus (CMP) le telefonò per avvisarla che le ossa che avevano incontrato in una fossa comune potevano appartenere ai suoi nonni. Bisognava solo dare loro un nome.

Nicosia, CMP laboratories. © M. Ansaloni

Il CMP  è l’unica entità bi-comunale dell’isola. È composto da rappresentanti delle due comunità e da un membro speciale dell’ONU. Istituito nel 1982, non ha cominciato a funzionare fino al 2007. “Durante 25 anni le autorità greco-cipriote fomentarono l’idea che molti degli scomparsi erano ancora vivi, rinchiusi in qualche carcere dell’Anatolia, per dimostrare che la guerra con Turchia non era mai finita”, spiega Francesco Grisolia, antropologo e corrispondente da Nicosia del portale Osservatorio Balcani e Caucaso. “Le istituzioni turco-cipriote, in cambio”, continua Grisolia, “davano per morti tutti quelli che non erano tornati a casa e li consideravano martiri della patria. L’obiettivo di questa strategia era instillare l’idea che l’unica maniera affinchè tutto ciò non si ripetesse era mantenere la divisione dell’isola”. Il CMP attualmente coordina tutte le fasi del proceso: l’esumazione dalle fosse, l’identificazione dei resti, l’analisi del DNA e la restituzione dei corpi ai familiari. Ma ad una condizione: che in nessun caso debba risalire alle cause della morte nè ai suoi responsabili. Fino ad oggi è riuscito a stabilire l’identità ai resti di 415 persone, 340 greco-cipriote e 75 turco-cipriote, che sono stati restituiti ai loro familiari.

Nelle enormi sale del Laboratorio di Antropología Forense del CMP, una luce biancastra scivola tra le pieghe delle lenzuola immacolate che coprono gli enormi tavoli. Su ognuno ci sono, ben ordinati, femori, costole, denti. “È come montare un puzzle di cui non abbiamo l’immagine”, mi confessa Engin Istenc, la coordinatrice turco-cipriota del laboratorio. Qui Maria riconobbe, tra centinaia di ossa, la catena dell’orologio di suo nonno e le scarpe nere di sua nonna. Una volta ricostruito lo scheletro, si raccoglie un frammento osseo e si procede all’analisi del DNA, che verrà poi confrontato con quello della presunta famiglia d’appartenenza. «La parte più difficile di questo lavoro è ricevere l’informazione con il nome della persona «, chiosa l giovane antropologa forense greco-cipriota Maristalla Kyrkintri. «È in quel preciso momento che le ossa che stai maneggiando si convertono in un individuo». Kyrkintri entrò nel laboratorio non solo per aiutare le famiglie degli scomparsi, ma soprattutto perché crede che si tratti di un compito importante per l’intera isola. «Abbiamo un problema comune. Se risolviamo questo insieme, potremo risolvere anche gli altri”, argomenta,  lasciando trapelare un sorriso. Anche lei ha uno zio disperso, ma non vuole pensare a cosa proverebbe nello scoprire che le ossa che sfiora tutti i giorni sono le sue. «Sarebbe molto emozionante, ma credo che le tratterei come se fossero quelle di uno dei tanti casi che abbiamo qui”, mi confida. “In fin dei conti, la parte più difficile rimarrebbe quella di dare loro un nome”.

Per molte famiglie, tuttavia, accettare la morte di un padre, una sorella, un fratello scomparso, è un trauma. “Molte donne dell’isola continuano a cucinare tutti i giorni il piatto favorito del loro marito. Nel caso torni proprio quel giorno”, spiega Ziliha Uluboy, una delle psicologhe turco-cipriote del CMP. Una volta verificata l’identità dei resti, un’equipe di psicologhe del CMP, formata da due turco-cipriote e due greco-cipriote, si incarica di informare la famiglia e di prepararla al momento del riconoscimento. Entrano in casa dei familiari, li ascoltano e li aiutano ad affrontare una realtà che per anni è rimasta latente. «È un vero shock prendere atto della loro morte. Si esaurisce la speranza”, aggiunge Uluboy. «Quando si perde una persona cara e non c’è la possibilità di fare un funerale, la ferita rimane aperta”, aggiunge Liza Zambas, la sua collega greco-cipriota. «Accettare la morte è un processo lungo. Molte madri hanno mantenuto intatta la stanza dei loro figli per tutti questi anni. Non è facile per loro cambiare questa abitudine da un giorno all’altro”. E conclude: «Non c’è nessuna differenza tra greco-ciprioti e turco-ciprioti nel momento della soferenza. Entrambi hanno sofferto lo stesso trauma e l’unica maniera di superarlo è condividerlo».

Circa tre anni fa, durante una cena diplomatica con l’inviato speciale dell’ONU Alexander Downer, l’ex presidente greco-cipriota Christofias e il leader turco-cipriota Eroglu, le mogli dei due politici dell’isola scoprirono que entrambe avevano un un fratello scomparso durante la guerra del ‘74. L’episodio fu letto come una speranza per la riconciliazione. “Il problema dei desaparecidos è l’unico per il quale gli esponenti delle due comunità si mettono d’accordo», illustra Oleg Egorov, assistente speciale del segretario della Comissione dell’ONU per Cipro. «In tutte le altre faccende, la sfiducia reciproca è enorme. Su questo punto, invece, le due comunità se uniscono perché lo vogliono, non perché le obblighi la comunità internazionale. Ad ogni modo», mi spiega rassegnato Egorov, che, prima di essere assegnato a Cipro, ha affinato le arti della diplomazia in Kosovo, Afghanistan e Iraq, “condividere il dolore è necessario, ma non sufficiente”.

I negoziati tra politici grecociprioti e rappresentanti del nord dell’isola si sono mantenuti costanti. E durante cinque decenni sono costantemente fracassati, spesso sotto il peso delle ragioni della guerra fredda o di altre ben più futili. C’è chi ancora ricorda di quando, negli anni ’80, in una pausa di incontri bilaterali, un generale della RTCN chiese un caffè turco. Un suo parigrado greco-cipriota gli rispose che solo avevano caffè greco e gli accordi saltarono per aria. Così come avvenne nel 2004, quando la maggioranza dei greco-ciprioti votarono ‘no’ al referendum sul Piano Annan, la proposta della creazione di una repubblica federale bi-comunale e bi-zonale portata avanti dall’ex segretario generale dell’ONU. Il 65% dei turco-ciprioti avevano votato positivamente, pero era indispensabile che entrambe le comunità lo approvassero.

Tre sono gli scogli principali contro cui hanno naufragato i negoziati. Il primo è quello dello status degli immigrati turchi che si sono installati, sotto l’auspicio spesso coatto della Turchia, nel nord dell’isola negli ultimi 50 anni. Il secondo concerne la restituzione o la compensazione delle proprietà che i greco-ciprioti e i turco-ciprioti possedevano dall’altra parte dell’isola, prima di essere dislocati. Una questione sulla quale si è già espressa con varie sentenze la Corte Europea di Diritti Umani. Ed infine, la presenza militare sull’isola e lungo il confine.

Le frontiere tra i due paesi sono rimaste ermeticamente sigillate per gli abitanti dell’isola fino al 2003, quando l’allora presidente e fondatore della RTCN, Rauf Denktaş, decise di aprire un varco doganale nelle vicinanze del famoso hotel Ledra Palace, sede del contingente ONU. Negli ultimi 10 anni ne sono stati aperti altri 6 in tutta l’isola. Tuttavia, secondo uno studio del gruppo di ricerca “Conflict in cieties”, un terzo della popolazione di entrambi i lati non hanno mai attraversato il confine, e per la maggior parte di quelli che lo hanno fatto si è trattato di un evento episodico.

Per andare nella parte nord della città con l’auto, bisogna superare il check-point di Ledra Palace. Lì, dei solerti impiegati della RTCN registrano i dati personali tutte le volte che si attraversa la frontiera, Alcuni turisti mostrano sorridenti il timbro apposto dai doganieri su un foglietto, prezioso per i collezionisti di vestigia della guerra fredda. Pochi metri più avanti, sotto il glicine della terrazza del bar Hamur, è seduta Sevgul Uludag. Mentre mi aspetta, tamburella nervosamente le unghie smaltate di viola sul portasigarette di latta con l’immagine di Che Guevara. L’abbigliamento e l’acconciatura da rocker nascondono un paio di lustri ai suoi 57 anni, la maggior parte dei quali trascorsi a scrivere sulle colonne dei giornali dell’isola delle ipocrisie dei due establishment. “Nei negoziati bilaterali, l’aspetto umanitario non è mai in agenda. È puro mercanteggio su quanto diamo e quanto riceviamo. Non si discute mai dell’empatia, del lutto, del dolore che ha vissuto la gente dell’isola”. Uludag è la coraggiosa giornalista che negli ultimi dieci anni sie è impegnata maggiormente a rompere il tabù che attanagliava le due comunità sul tema dei desaparecidos. Per il suo lavoro, è stata più volte minacciata di morte, soprattutto da esponenti della sua comunità, la turco-cipriota. Nonostante la paura, ha continuato a raccontare le storie delle persone scomparse, dei massacri e di chi li ha coperti. Nel 2006 ha raccolto le sue indagini nel libro Oysters with messing pearls, pubblicato in turco, greco e inglese. “È stato uno shock enorme per le nostre comunità scoprire che anche l’altra aveva dei desaparecidos. Ogni fazione tendeva a vittimizzarsi, a piangere solo per il dolore proprio. Invece”, aggiunge Uludag, “ho provato a far sì che tutte e due capissero che ‘Sì, anche noi abbiamo commesso dei crimini. Che sì, anche noi siamo colpevoli’. E questo ha significato un terremoto”. Uludag ha intervistato anche a molti degli assassini, pero si rifiuta a pubblicare i loro nomi fino a quando le due parti non decidono cosa fare. “A me interessa lavorare per le famiglie”, precisa mentre aspira una profonda boccata dall’ennessima sigaretta. “Il mio obiettivo è dimostrare come il nostro dolore in comune serva per costruire il nostro futuro in comune”. Per raggiungerlo, Uludag ha aiutato anche a fondare l’asscoiazione Togheter we can, che si occupa di mettere in contatto i familiari delle vittime e dei desaparecidos sia greco-ciprioti che turco-ciprioti e di promuovere il dialogo con incontri nelle scuole e in centri civici. “Respiriamo la stessa aria, beviamo la stessa acqua, mangiamo le stesse pietanze. Se non ci accorgiamo di questo, che è una sola isola, siamo perduti!”, esclama prima di liberare una sonora risata.

“Preghiamo per le anime dei nostri defunti”. I raggi del sole cadono a picco salla punta dei cipressi del piccolo cimitero. Tutti i membri della famiglia Tsiaklis si accalcano sui bordi del fosso scavato dai seppellitori. Maria, accanto al sacerdote, ripete le ultime orazioni. Stanno collocando le bare nella tomba, la stessa di suo padre. Una prima vangata di terra. Una seconda. Poi tutte le altre. Una lapide di granito viene spostata per richiudere la tomba. Sopra, due foto in bianco e nero. “I miei nonni si chiamavano Maria e Mikhail”.

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